“Le emergenze mettono anche in luce le fragilità dei sistemi.
Nel 2008 prima e poi di nuovo oggi, davanti a crisi molto diverse, abbiamo dovuto constatare che l’elemento più fragile in Italia sia quello dell’assenza di collaborazione e di coordinamento tra i livelli di governo. Il che, a ben vedere, rimanda a una patologia ancora più grave, e cronica ovvero l’irrisolutezza dei ruoli che lo Stato, Regioni, aree intermedie e Comuni hanno nell’architettura del nostro assetto istituzionale.
Alla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del Consiglio dei Ministri il 31 gennaio 2020 hanno fatto seguito una serie di provvedimenti (ordinanze della Protezione Civile, decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, decreti legge del Governo), a volte generici, o eccessivamente dettagliati, a cui le Regioni hanno però reagito troppo spesso mostrando insofferenza e, in alcuni casi, la determinazione a muovere secondo proprie logiche differenziate.
Negli oltre 560 provvedimenti adottati tra Stato e Regioni si rivela una grave mancanza di visione condivisa. I governi regionali hanno mostrato, a volte quasi ostentato, l’adozione di iniziative ulteriori, a volte più restrittive e a volte più permissive, culminate nel caso della regione Calabria che, in aperto contrasto con il calendario fissato dal Dpcm del 26 aprile 2020, con l’ordinanza n.37 del 29 aprile ha disposto che dal giorno dopo fosse consentita la ripresa delle attività di ristoranti, pizzerie e agriturismi. Il fatto che i Comuni, attraverso l’Anci e il Presidente Decaro, abbiano rinunciato al potere d’ ordinanza dei sindaci (art.50) come gesto di responsabilità nazionale, è stato ignorato da tutti.
Se nella relazione tra Stato e Regioni è il conflitto ad avere (almeno fin qui) caratterizzato i giorni della crisi, nei confronti degli enti locali la cifra distintiva è stata piuttosto la sottovalutazione dei problemi indicati dai Comuni.
Nelle previsioni del Governo (ma non nella realtà di contrasto quotidiano alla pandemia e ai suoi effetti) il ruolo delle istituzioni più vicine ai cittadini è stato considerato secondario. Ai Comuni, intesi sostanzialmente come ambiti di decentramento ed esecuzione di decisioni prese dal Governo, sono state affidate solo l’individuazione dei beneficiari degli assegni per l’emergenza alimentare, e l’erogazione del relativo contributo tra i nuclei familiari in stato di maggior bisogno, mentre solo negli ultimi giorni ci si è mossi verso un riconoscimento di stanziamento per sostenere i municipi nello sforzo in atto, con tre miliardi già oggi insufficienti. Ancor più severa è, per molti versi, la condizione delle Città metropolitane (e delle Province), ignorate del tutto nel disegno dei provvedimenti contro l’emergenza sanitaria. E ciò a dispetto di alcuni elementi che avrebbero dovuto far riflettere (e agire) ben diversamente.
In primo luogo un elemento fattuale: l’infezione, come alcuni hanno già scritto, si è diffusa (ed è stata identificata e contenuta) soprattutto in ambiti sovracomunali, se non appunto provinciali. E ancora: è proprio negli agglomerati urbani più grandi, coincidenti in gran parte con le città metropolitane, che il virus aveva facile campo di trasmissione.
Sarebbe dunque stato utile pensare a una responsabilità di questi livelli territoriali, capaci tra l’altro di azioni di coordinamento degli ospedali, del personale sanitario, delle risorse e anche di interventi organici e differenziati in ambito sociale, con l’attivazione in area vasta delle diverse forme dell’associazionismo e del volontariato e con una funzione, quella dello sviluppo economico e sociale, che solo le Città metropolitane hanno per legge. È una dimenticanza ostinata del ruolo che pure si era immaginato per questi enti solo 5 anni fa, quando la loro istituzione fu la prima, forse unica, vera reazione alla crisi economico-finanziaria. Quando dei nuovi enti si definirono (ed era la prima volta) le finalità generali, ponendo al primo posto il piano strategico dello sviluppo del territorio metropolitano, e poi la promozione e la gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione dell’area.
Dei nostri giorni, le Città metropolitane interpretano (o potrebbero interpretare) perfettamente il senso. Possono (o potrebbero) rappresentare la riaffermazione di quell’amministrazione allo stesso tempo forte e semplificata che tutti oggi invocano. Da una parte con lo sguardo rivolto a una comunità più ampia e a logiche legate alla adeguatezza delle politiche di sviluppo sostenibile e di equità nelle scelte territoriali. Dall’altra, le Città metropolitane sono enti di relazione più che regolativi, e quindi capaci di aggregazione e di mediazione, nei quali il rapporto tra i poteri locali muta da semplice sovrapposizione appunto a integrazione orizzontale delle scelte, secondo una logica di federalismo cooperativo.
Eppure, mentre le regioni mostrano in tutta evidenza fastidio e sospetto per queste “eccezioni” nel loro tessuto locale, lo Stato continua a dimenticarsene. Forse ancora vittima del pregiudizio “antiprovinciale”, si dimentica che le città metropolitane sono, innanzitutto, città e rappresentano 1/3 del PIL del Paese. Le Città metropolitane possono essere in concreto il motore di un rilancio dello sviluppo sostenibile, che può fare da volano per l’insieme dei comuni, rispetto ai quali resta essenziale la capacità di riparare la dispersione di troppi piccoli e piccolissimi Comuni, di dimensioni inadeguate a sostenere i problemi nella vita quotidiana delle persone.
Rinviata a temi non prevedibili la questione delle riforme istituzionali, per le Città metropolitane si tratta di avere le risorse e i poteri per cui sono state create.
E di avere come interlocutrice la Presidenza del Consiglio per concordare una concreta Agenda Urbana Nazionale, così come già fatto in Europa e in diversi Stati europei. Da qui la necessità di aprire un confronto, che da un lato eviti ai Comuni e all’Anci le strade consuete delle rivendicazioni verso lo Stato centrale e le Regioni e dall’altro permetta di fare delle città il luogo privilegiato dello sviluppo sostenibile economico, sociale e ambientale.
Il Green Deal Europeo, senza le città metropolitane e il loro ruolo sarebbe un’altra occasione persa e grave in questa situazione. Sulle basi di tutte queste considerazioni avanziamo una proposta al Governo e al Parlamento, un pacchetto di investimenti per lo sviluppo sostenibile delle città e dei territori”.